• Pane di matera, fetta a cuore

"Il pane, l'acqua ed il vino, le tre cose più necessarie alla vita, sono eccellenti; ed il pane e l'acqua in ispecie, non sono inferiori a quelli di nessun paese del Regno."

Conte Carlo Ulisse De Salis Marschlins, parlando di Matera, da "Viaggio nel Regno di Napoli", 1789

Se ci fosse una linea di demarcazione temporale per separare il Pane di Matera di ieri da quello di oggi sarebbe collocata sicuramente da qualche parte nel decennio tra il 1950 dal 1960. E' in questo lasso di tempo, infatti, che mutano i costumi sociali a Matera, sopratutto a causa dello sgombero dei Rioni Sassi, ritenuti malsani e inabitabili, imposto dalla Legge n. 619 del 17 maggio 1952 promossa dall'allora capo del governo Alcide De Gasperi. In quel decennio circa ventimila persone si trasferirono nei nuovi rioni popolari costruiti appositamente per accoglierle, ma se guadagnarono una abitazione decorosa e salubre, al posto delle case-grotta affollate e senza servizi igienici, sicuramente persero qualcosa di ugualmente importante: le proprie radici. I nuovi alloggi popolari, infatti, furono assegnati seguendo dei criteri logici materiali, come il numero dei componenti familiari, la professione del capofamiglia ecc. Non fu data importanza invece al criterio sociale: la gente era abituata a vivere da generazioni nello stesso "vicinato", cellula architettonica alla base del sistema "Sassi", formato da una piazzetta circondata da una decina di abitazioni, in cui le famiglie costituivano un verio e proprio clan, una grande famiglia allargata che svolgeva coralmente una serie di lavori agricoli e domestici, e condivideva spazi e ritmi di vita, in un mutuo e continuo scambio di saperi, di competenze e di solidarietà. Fu così che nello spostarsi nei nuovi quartieri andò persa quella realtà condivisa che rendeva sicura e scorrevole la vita quotidiana, regolata da norme arcaiche e tradizioni senza tempo, ed andarono persi tutti quegli aspetti peculiari della cultura popolare come l'uso del dialetto, del commercio ambulante, dei mestieri antichi, della sapienza "primitiva" in favore di quanto ritenuto "più moderno".

    • sassi
    • Foto di: Emanuele Scalcione

Accanto a questo grande mutamento che sicuramente permise di guadagnare in salute (pur sacrificando gli aspetti più intimi della propria vita), un altro cambiamento silenzioso ma non meno sconvolgente interessò la città. I forni, disseminati tra i rioni Sassi vennero anch'essi abbandonati per essere trasferiti nella parte abitata dei nuovi quartieri popolari. Oltre alla collocazione però, subirono un cambiamento di stato molto importante: non servivano più a cuocere esclusivamente il pane impastato a casa dalle donne, ma si trasformarono il luoghi di produzione del pane, da rivendere già pronto alle famiglie. Con l'abbandono dei rioni Sassi infatti, una delle prime consuetudini che si persero fu quella di impastare il pane in casa con cadenza regolare, tanto che iscriversi nell'elenco dei turni di cottura del fornaio (la vecitata, da "vece" o "vicenda" cioè turno) era una delle prime preoccupazioni delle novelle spose. Si passò quindi dall'impasto fatto a forza di braccia, preghiere e lievito madre gelosamente conservato e scambiato come segno di stima e rispetto, alla moderna impastatrice elettrica ormai presente in tutti i nuovi forni.

Ma esattamente come avveniva tutto il procedimento tradizionale di produzione del Pane di Matera? Cercherò di descriverlo, aiutata dalla testimonianza diretta di nonna Carmela Braia, che aiutava sua nonna nel forno di famiglia in cambio di un corredo da principessa e tanto affetto e stima per quella ragazza così assenziel (intraducibile vocabolo che racchiude i significati di responsabile, seria, lavoratrice), e dai libri "C'era una volta il forno di una volta", di Nicola Rizzi con prefazione di Giovanni Caserta (BMG Editrice), "Voci di Sassi" di Antonio D'Ercole (Edizioni Centrostampa Matera) e "Il pane dei Sassi" di Enzo Paternoster, con prefazione "Il linguaggio del grano" scritta nientemento dall'antropologo Luigi M. Lombardi Satriani (Edizioni Paternoster Matera)

    • Nonna Carmela

L'impasto
L'impasto veniva preparato in casa, sull'apposito tavoliere in legno, u tavlìr (oggetto a destra nella foto in basso) utilizzando farina di grano duro di varietà locali come il Senatore Cappelli, Duro Lucano, Capeiti e Appulo, lievito madre conservato dall'impasto precedente, sale ed acqua.

setaccio tavoliere e tavola

Il pomeriggio del giorno prima si rinfrescava il lievito madre, conservato in un recipiente chiamato uauattidd (in basso, a sinistra), trasferendolo in una conca di terracotta smaltata, u majùstr (in basso, al centro), nel quale si impastava con pari peso di farina e metà del peso di acqua, conferendogli la forza necessaria per far alzare e lievitare la massa. In serata si setacciava la farina necessaria (il setaccio è l'oggetto a sinistra nella foto a sinistra), operazione effettuata per eliminare eventuali impurità e per aerare ed alleggerire la farina, in maniera tale che tutto fosse pronto per il lavoro di impasto delle ore successive.

Tutto incominciava con un segno di croce e a volte con una breve preghiera, poi la farina si disponeva a fontana sul tavoliere (foto in alto, oggetto a sinistra), piano di legno con i bordi laterali e superiore rialzati, ben pulito, e nel mezzo si poneva il lievito stemperato in acqua calda. Vi era sempre a disposizione un contenitore con acqua tiepida per aggiungere liquido nel caso che la consistenza dell'impasto lo richiedesse, ed uno con il sale, da aggiungere al momento opportuno. Uno strumento semplice ma fondamentale che non mancava in nessuna casa era la rasola (in basso, a destra), una spatola di metallo tagliente con la quale si raschiava il piano di legno dove si appiccicava inevitabilmente la pasta durante la lavorazione. [Gli oggetti nelle foto sono in mostra a Casa Grotta]

La donna che impastava il pane era considerata fortunata se aveva "la mano calda", cioè se con il suo lavoro fosse in grado di far lievitare presto e bene la massa, mentre se era di "mano fredda" le riusciva meglio impastare i dolci come taralli e biscotti.
Il lavoro di impasto durava circa tre ore, in base alla quantità di pane da preparare, e considerando le famiglie numerose e la durata settimanale del pane in media si aggirava intorno ai 15 kg.
L'impasto si incominciava a preparare in base alla prenotazione raccolta dal garzone del fornaio, per cui se si intendeva cuocere al "primo forno" alle 6 del mattino si doveva incominciare alle 3, per il forno delle 8 (il secondo, o alla pèrt du m'làrn "all'apertura dei mulini") si doveva incominciare alle 5 del mattino, per il "terzo forno" delle 10 del mattino bisognava invece iniziare per le 7. Le infornate potevano essere anche solo due nei giorni infrasettimanali, mentre venivano fatte sicuramente tutte e tre al sabato quando vi era più richiesta: di solito era la domenica infatti che i lavoratori, pastori, braccianti o salariati, si spostavano in campagna portando con sè il pane fresco e la biancheria pulita per le due settimane che trascorrevano fuori casa. Il pane aveva infatti una lunghissima durata, fatto a regola d'arte e con pasta madre rimaneva commestibile anche dopo 15 giorni, se conservato bene.

La lievitazione
Una volta pronto, dopo circa un'ora e mezza di lavoro (il movimento tipico era chiamato "trombare la massa" e avveniva affondando i pugni chiusi nella pasta utilizzando il peso del corpo) l'impasto veniva avvolto da un telo pulito u cennaril, una o più coperte, e messo a riposare nel letto matrimoniale, sotto le coperte, preferibilmente dalla parte dove dormiva l'uomo, non solo per sfruttare il calore residuo accumulato dai corpi durante la notte, ma anche perchè era ritenuto un luogo propizio, essendo il talamo un luogo sacro e magico legato comunque all'idea della fecondità e dell'amore. Talvolta l'impasto si riprendeva e rilavorava dopo una prima lievitazione e si rimetteva al caldo. Veniva recitata una breve preghiera per propiziarne la lievitazione:  Criscj mass, criscj mass, com criscej Gesèj 'ndà la fascj, criscj pan, criscj pan, com criscej Gesej 'ndà la nac (cresci massa, cresci massa, come crebbe Gesù nelle fasce, cresci pane, cresci pane, come crebbe Gesù nella culla), o un'altra versione: Criscj mass criscj mass com criscej Sand T'raes 'ndà la fascj, Sand T'raes na c'rnì, nan tr'mbò e na fazzator d pan spartì! (cresci massa, cresci massa, come crebbe Santa Teresa nelle fasce, Santa Teresa non setacciò, non impastò e una madia di pane riempì)
(Recitata in dialetto qui in basso)

pane nel forno di serra venerdi 10

Veniva poi tagliato in diversi pezzi del peso di due o tre kg a cui di dava la forma con una serie di pieghe, la formula più comune era "tre pezzi e nu pizzaridd", cioè tre pezzi uguali e uno più piccolo. I pezzi venivano poggiati su una tavola di legno (si intravede nella foto piccola all'inizio del testo, insieme al tavoliere ed al setaccio) appoggiata su due sedie, e avvolti ancora in una coperta.
Il garzone del fornaio veniva a ritirare il pane dopo aver preso la vecitata cioè la prenotazione al mattino presto, aiutato dal suono di un fischietto o di una trombetta, e lo posizionava su una lunga tavola di legno insieme agli altri pani, portata a spalla o sulla trainella, una sorta di carriola, dove era possibile utilizzarla.

La preparazione delle pagnotte
Spesso la donna che aveva impastato il pane seguiva il garzone fino al forno per riportare subito indietro la focaccia infornata prima del pane e per vigilare su di essa e prevenire gli indesiderati "furti d'olio" cioè manate assestate sulle focacce più condite per asportare un po' di condimento e spostarlo su altre focacce "povere", di cui si aveva terrore non per il ladrocinio in sè ma per il contagio portato da tale contatto (ricordiamoci la gelosia e l'orgoglio provato per il proprio impasto come per la propria creatura). Ci si recava al forno per godere di un po' di tepore sopratutto durante la rigida stagione invernale ma anche per controllare la buona esecuzione della cottura: a volte infatti, a causa dei troppi pezzi di pane posti a cuocere contemporaneamente, si riceveva il pane con "la faccia" detta in dialetto miscatir, cioè con i lati più crudi e schiacciati causati dal contatto tra i vari pezzi avvenuto in forno, e ciò non era affatto gradito!
Il forno era riscaldato con fascine di quercia, olivo o lentisco ben asciutte, poste all'esterno e successivamente in un locale apposito per farle seccare bene prima di utilizzarle perchè sprigionassero tutto il calore necessario con forza,  e pulito con il min'l, un'asta alla quale erano attaccate strisce di iuta utilizzate bagnate per pulire il fondo del forno da cenere e residui di carbone, dove si appoggiava il pane. All'arrivo dei pani era tutto pronto per iniziare la cottura: a questo serviva prendere gli ordini di cottura, a calibrare il calore e la durata dell'infornata.

Il pane veniva brevemente rimodellato prima di essere infornato per imprimere la forma desiderata: il cornetto, che pieno di gobbe e bozzi dopo la cottura diventava più croccante e con più scorza, chiamato in dialetto sc'cqànet, o il pane alto, dalla forma più lineare e con uno "zuccotto" tondeggiante sulla sommità, chiamato a pìzz.
Qui in basso un video di pochi secondi in cui si capisce bene che tipo di lavorazione si faceva per formare il "cornetto".

timbro del pane galletto

I pezzi venivano marchiati con il "timbro del pane", che imprimeva le iniziali di famiglia, per evitare di essere confusi con altri pani, oppure venivano marchiati con pizzichi e segni particolari sulla pasta impressi con le dita. Il fornaio conservava in un angolo un "grappolo" di timbri del pane, appesi, dei clienti abituali, oppure era la donna che aveva impastato che si recava al forno, portandosi dietro il proprio e lo passava al fornaio che apponeva il marchio al momento giusto.
Il timbro o marchio del pane era uno degli oggetti più importanti nelle case del passato. Esso simbolicamente incarnava il concetto di appartenenza, con le iniziali del pater familias intagliate nella parte inferiore che avrebbero marchiato il pane rendendolo inconfondibile (nelle foto a sinistra e in basso a destra marchi amorevolmente ralizzati da Alessandro Castano).

timbri del pane 13

I marchi più ricercati erano quelli intagliati dai pastori durante i lunghi giorni di solitudine al seguito delle greggi al pascolo, che raffiguravano motivi beneaugurali ben codificati nella cultura popolare. Il più diffuso e richiesto era il gallo, ricorrente anche nel tradizionale fischietto di terracotta, il cucù (foto in basso a destra, opera del maestro Daddiego), presente in tutte le case di Matera, e da sempre associato ai concetti di fertilità, prosperità e abbondanza, ma vi era un intero repertorio di modelli codificati in cui si associava al soggetto rappresentato una qualità propria della famiglia a cui il timbro apparteneva. I pastori intagliavano anche meravigliosi cucchiai e mestoli con le medesime decorazioni, è possibile ancora oggi trovarne in vendita di stupendi nei paesini sparsi sulle montagne lucane (foto in basso, utensili in vendita a Brindisi di Montagna e Pietrapertosa).

pane nel forno di serra venerdi 05

Il fornaio conosceva i gusti dei clienti e si regolava di conseguenza nel posizionare il pane nel forno per ottenere la cottura preferita (quello posto più vicino alle braci veniva più scuro e croccante, quello più vicino alle pareti esterne più chiaro e morbido). Quando tutti i pani erano sistemati all'interno del forno, il fornaio chiudeva con un portello metallico l'imboccatura, e la sigillava con pezze bagnate di iuta tutt'intorno in maniera tale che non ci fosse dispersione di calore. Le tavole di legno con le panelle da cuocere allineate venivano poste su dei sostegni infissi nel muro nel forno, e dopo la cottura i pani venivano riposizionati nel medesimo ordine per essere riportati ai legittimi proprietari.

La cottura
Il forno si affollava spesso di clienti che aspettavano la cottura del proprio pane, che durava fino a tre ore, diventando quindi anche uno spazio sociale, dove scambiare chiacchiere, discutere di eventuali problemi, fare pettegolezzi e ascoltare aneddoti e notizie. Il fornaio era in tutto questo una sorta di sacerdote che con gesti cadenzati e rituali amministrava questa sorta di cerimonia che era la cottura del pane.
Il giorno di cottura, prima della infornata del pane, si cucevano le focacce bianche o col pomodoro, ripiene di con cipolle, olive ed acciughe, il ricch'l, pane a ciambella più morbido ma anche più deperibile, a volte modellato in forma di cavalluccio o di bambola per i più piccoli, la focaccia con lo zucchero o il prezioso "ricch d'ugghj" una focaccia cotta in teglia con tanto prezioso olio (da qui il nome, in italiano "ricca d'olio"). Esse erano cotte senza ricevere alcun compenso dal fornaio, in segno di riconoscimento verso i clienti abituali, u visc'tòrl, letteralmente "coloro che erano in fila per il turno" e ciò bastava a trasformare il giorno dell'infornata in una festa per grandi e piccini. Spesso infatti, proprio quel giorno era terminata la scorta di pane e in attesa di ripristinarla rappresentavano il vitto della giornata. Inoltre servivano a capire in anticipo se fosse andato tutto bene nella preparazione e lievitazione della pasta, in anteprima rispetto all'assaggio del pane.
Il fornaio era responsabile del pane affidato, infatti era tenuto a risarcire la famiglia  nel caso il garzone non avesse annotato correttamente il nome del proprietario nell'elenco dei turni delle cotture lasciando fuori il pane da cuocere (se non trovava accoglimento neppure in altro forno, all'ultimo minuto), nel caso in cui il garzone avesse fatto cadere l'impasto a terra trasportandolo, in caso di riuscita negativa della cottura (bruciatura o altri danni). Una volta ricevuto il pane dal garzone che lo riportava cotto, era consuetudine recitare una breve giaculatoria nel riporlo nella "cassa del pane" a cui rispondeva con una chiusura rituale il garzone, serio e compunto.
La farina rimasta sui tavolieri, sparsa con cura per non far attaccare le pagnotte crude trasportate al forno, veniva rimossa prima di ogni infornata con una scopetta di penne di gallina o tacchino e conservata in una secchiello durante il lavoro, e poi svuotata in una apposita sacchetta di stoffa bianca. Quando si accumulava un quantitativo sufficiente di farina si procedeva ad impastarla e il pane ricavato spettava ai garzoni e agli aiutanti del fornaio, che non di rado donavano questo pane ai poveri e alle famiglie meno abbienti.
Nella settimana di Natale anche il pane si vestiva a festa: le donne portavano con sè una manciata di mandorle non sgusciate che il fornaio distribuiva sul pane prima di cuocerlo, anche questo era un lusso, e bastava a rendere speciale un alimento semplice come il pane in un periodo dell'anno così importante dal punto di vista religioso.
Una occasione speciale era costituita dalla preparazione del pane per un matrimonio: il "pane della sposa" era trattato con riguardo, impastato con i lieviti ritenuti migliori e preparato con una cura maggiore di quella già molto alta generalmente tenuta; veniva preparato in pezzature molto più piccole del solito, eleganti e discrete, in maniera che non ingombrasse eccessivamente il tavolo durante i festeggiamenti ed il pranzo di nozze e veniva preparato dalle amiche e parenti della sposa reclutate per l'occasione. Veniva portato a cuocere da un coro festante di ragazze che lo accompagnavano al forno, in un anticipo della festa che doveva celebrarsi poco dopo, adornato di fiocchi e nastrini. Era quindi alla fine una cerimonia nella cerimonia!
 

Alla luce di questo lungo racconto quindi, si capisce che il pane di Matera non è un semplice alimento, è il prodotto simbolo del territorio, della storia, delle credenze, dei miti e delle tradizioni che la animano dalla notte dei tempi.  Legato inscindibilmente ai Sassi, gli antichi rioni, con la peculiarità sociale ed abitativa dei vicinati, incarna in una sola profumata pagnotta i cicli delle stagioni, la cultura contadina e la generosità della terra,  condensa insomma un intero universo. Racchiude un territorio, un modo arcaico di vivere arrivato fino a oggi, un significato profondo fatto di gesti rituali, di rispetto per la terra e per la la fatica di uomini e donne, in poche parole tutta la storia contadina della gente di questi luoghi.

Nel video qui sotto un bellissimo cortometraggio realizzato dagli studenti del Liceo Scientifico Statale "A. Labriola" di Napoli nell'ambito del progetto PON di Grafica svoltosi a Matera, che narra in forma poetica proprio una storia ambientata mezzo secolo fa nei Sassi, tra una bella popolana ed il garzone del fornaio (che mi auguro le abbia dato nel frattempo qualche lezione di impasto!) in cui è possibile rintracciare molti degli elementi presenti nel testo che avete appena finito di leggere.

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